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Oltre le sbarre, sette detenuti si raccontano

Un cancello che si apre o si chiude al nostro passaggio non ha nulla di speciale, a meno che non sia quello di un carcere.

Acquista, in questo caso, un carattere fortemente simbolico e con emozione viene rievocato da Katya Maugeri nel suo libro “Liberaci dai nostri mali” (Villaggio Maori Edizioni), che racconta i colloqui avuti con sette detenuti.

Sette persone che le hanno narrato la propria storia e che, non potendo citarne i nomi, l’autrice indica a partire da un particolare (L’uomo col cappello di paglia, L’uomo dai ricordi di cemento) che non serve solo ad individuarli.

Costituisce, per ognuno di loro – precisa Maugeri – una sorta di nuovo battesimo, un modo per offrire loro una diversa possibilità. Una possibilità che non è quello che faranno appena usciti dal carcere, anche perchè tre di loro sono ergastolani, ma quello che in carcere sono divenuti o stanno divenendo.

Tutti gli intervistati parlano infatti del carcere come di una “scuola”, anche se non tutti appaiono trasformati rispetto al ‘prima’ e qualcuno ostenta la sicurezza e il prestigio che gli viene dall’appartenenza ad un clan.

Questo non è quindi un libro che giustifica la colpa nè un libro sul perdono, è solo un libro di “storie”, che può aiutarci a riflettere, anche su noi stessi, sulla nostra presunta innocenza.

Non a caso la presentazione di questo testo è stata scelta come uno dei momenti di formazione dei ragazzi che partecipano al campo organizzato da Libera sul terreno confiscato alla mafia, assegnato alla cooperativa Beppe Montana.

Ed è stato proprio il fratello di Beppe, Dario Montana a prendere la parola per un intervento introduttivo coinvolgente perchè ricco anche di riferimenti personali.

E’ inevitabile, ha confessato, provare un moto di soddisfazione quando i colpevoli dell’uccisione di un parente vengono catturati e condannati, talora anche uccisi, come accadde a Salvatore Marino nel corso di un violento interrogatorio.

Ma il sentimento istintivo della vendetta non ha nulla a che vedere con la giustizia, che – a sua volta – non viene garantita nemmeno dalla sentenza e dall’espiazione della pena, se manca un percorso di cambiamento da parte del condannato.

Non a caso oggi si parla di ‘giustizia riparativa‘ o – ancor meglio – ‘rigenerativa’, da anni sperimentata nel dialogo tra vittime e carnefici del periodo del terrorismo. Un percorso faticoso, doloroso e lento che ha permesso profonde trasformazioni interiori da parte degli uni e degli altri, come Argo ha già raccontato.

E’ possibile avviare esperienze simili anche tra colpevoli e parenti delle vittime di mafia? si è chiesto Montana.

E’ una sfida di non poco conto, un invito – per chi ha subito la perdita di persone care – ad occuparsi dei giovani che vivono in ambienti mafiosi o a varcare le soglie delle case di reclusione in cui i detenuti per mafia sono rinchiusi.

Se non altro per “riconoscere i diversi dolori”, capire le cause di quello che è accaduto, individuare le nostre responsabilità, in primis l’indifferenza, come ha sottolineato Katya Maugeri.

Per chi uscirà dal carcere si pone in modo scottante il problema di cosa lo aspetta fuori, il pregiudizio, le opportunità negate, la mancanza di un sostegno che faciliti il reinserimento.

Sarà difficile che bastino le esperienze formative fatte in carcere, il lavoro all’esterno quando è stato possibile sperimentarlo, le riflessioni e le intenzioni di cambiamento. La paura è quella di ritrovarsi nella stessa situazione di emarginazione che ha facilitato la maturazione del reato.

Per chi sa che resterà a lungo, o per sempre, in carcere pesa soprattutto il distacco dai figli, la “pena suppletiva che non si finisce mai di scontare”.

C’è anche chi in carcere si toglie la vita perchè non regge al dramma della reclusione, in particolar modo alle sue condizioni maggiormente problematiche, il sovraffollamento o l’abuso dei mezzi di costrizione come la ‘cella liscia’, l’isolamento in un ambiente totalmente vuoto usato per punire comportamenti ribelli, legati talora a disturbi psichici che andrebbero piuttosto curati in strutture idonee.

Un evento ricco di sollecitazioni e di spunti da approfondire, quello di giovedì scorso, realizzato in un contesto significativo come il Bastione degli Infetti, importante monumento della Catania antica, bene comune di cui la città si è riappropriata, grazie all’impegno del Comitato Popolare Antico Corso, dopo lunghe e faticose interlocuzioni con l’Ente locale che lo aveva abbandonato all’incuria e all’utilizzo improprio e illegale da parte di privati.


Argo

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