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La Scortecata, farsa e tragedia

Una storia lontana nel tempo, riavvicinata all’occhio e all’orecchio moderni da un finale intriso di tenerezza e disperazione del tutto contemporaneo.

E’ la Scortecata, ovvero “l’intrattenimento decimo della prima giornata” de “Lo cunto de li cunti “di Giambattista Basile, che fornisce parte della trama alla drammaturga e regista siciliana Emma Dante, che si lascia ispirare da questa cruda favola con epilogo amaro.

Nel suo capolavoro Basile, letterato napoletano del seicento, ha raccolto 50 favole popolari e le ha raccontate in un sontuoso, scurrile dialetto partenopeo che la Dante a tratti mantiene.

La scelta è felice perché, anche se non comprendiamo ogni parola, il suono stesso si risolve in un grammelot che invece di togliere senso, rende vivacissima la scena, acuendone fino al parossismo i toni grotteschi e strizzando il cuore e lo stomaco dello spettatore in un’altalena continuamente oscillante tra i toni della farsa e della tragedia.

La scelta del dialetto contribuisce ad esaltare anche la gestualità dei due bravissimi interpreti napoletani, Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, perché la Dante, come in tanti suoi lavori, lascia molto spazio al linguaggio del corpo e il gran lavoro fisico degli attori finisce per diventare controcanto alle parole, dando loro avvio e completezza.

Sulla scena quasi vuota stanno due sedie, un castello-giocattolo, una porta e due sorelle molto vecchie interpretate da due uomini.

Questa decisione riprende, è vero, la tradizione del teatro secentesco, ma i corpi maschili servono a rendere ancora più grottesca la vicenda, ancora più disperata la bruttezza, ancora più misera una vecchiaia fatta dei vani sproloqui, dei battibecchi, tra amore ed odio, di due donne auto segregatesi in una topaia.

Ed ancora più lacerante diventa il sogno di una giovinezza lontana e di una bellezza mai posseduta.

Un re, ammaliato dalla voce di una di loro, vuol credere appartenga ad una giovane bellissima e desidera vederla e trascorrere con lei una notte d’amore.

Bisogna rendere liscio un dito, almeno uno, per mostrarlo al re! Succhiarlo con brama e disperazione, quasi un capriccioso ritorno all’infanzia, fino a farne scomparire grinze e cedimenti, fa tutt’uno con i vaneggiamenti della vecchiaia e le sue fantasie oniriche.

L’atto unico comincia nel buio con gli spettatori catapultati fin dentro la scena, sembra quasi di stare su un piccolo vascello sballottato da un mare in tempesta, e i gesti convulsi, le risate del pubblico, il bel dialetto, le struggenti canzoni napoletane sono alte onde che ci sommergono per ritrarsi all’improvviso, lasciandoci affascinati ed un po’ sgomenti nell’ apprendere che alla fine è della morte che si parla, così tanto temuta e così tanto desiderata.

Prodotto dal Teatro di Spoleto 60 e dal teatro Biondo di Palermo, rappresentato per la prima volta a Spoleto nel 2017, questo breve ma intenso spettacolo gira l’Italia da quasi due anni. Ora è qui a Catania al Piccolo Teatro della Città, per chi voglia andare a vederlo.

Argo

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