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I porti sono 'chiusi', ma i migranti sbarcano in Sicilia

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Prima la voce grossa e la chiusura dei porti. Ieri, 13 giugno, 934 migranti, tra cui molti minori non accompagnati, sono sbarcati nel porto di Catania, trasportati dalla nave Diciotti della Guardia costiera italiana.
Sembra il festival dell’ipocrisia, un tragico festival, le cui uniche vittime sono ancora una volta i migranti.
Al di là della cronaca, di fatti che, verosimilmente, si ripeteranno puntualmente nei prossimi mesi, bisognerebbe interrogarsi su ciò che sta accadendo.
E’ sufficiente, infatti, ascrivere una tale barbarie esclusivamente al meschino calcolo elettorale del cosiddetto governo giallo-verde?
Cosa è successo nel nostro Paese perché la maggioranza dei nostri concittadini, oggi, si lascia trascinare dalla paura, a prescindere da ciò che sta realmente accadendo?
Eppure, i dati dimostrano che L’Italia, “martire del Mediterraneo”, “invasa” da orde di disperati, accoglie 147.300 profughi, 2,4 ogni mille abitanti. Mentre gli altri Paesi ne accolgono 18,3 ogni mille (Malta), 8,1 (Germania), 10 (Austria)……
Probabilmente, però, ragionare non basta, chi non vuol sentire continuerà, infatti, a denunciare la presunta invasione.
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Chi non vuol sentire non capirà che è proprio la mancanza di una vera accoglienza, il non farsi effettivamente carico del problema, a far crescere il malessere.
Quanti sono, di fatto, abbandonati per strada diventano, così, la “prova” dell’impossibilità di qualsiasi ipotesi di convivenza e integrazione.
E’ il cane che si morde la coda,  la profezia che si autoavvera: i migranti vanno bene solo quando, come nelle campagne, lavorano lontano dai nostri sguardi, senza diritti, percependo salari vergognosi.
Forse, occorrerebbe denunciare il razzismo e il disprezzo verso l’umanità dimostrati da chi vuole aiutarli “a casa loro”, denunciare che il re è nudo, che nessun muro potrà fermare chi fugge per avere diritto alla vita.
E che nessuno, si chiami Minniti, Salvini o Di Maio, può decidere sul diritto al futuro di altri uomini e altre donne.

Argo

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