A partire da quelle siciliane che lavoravano nelle miniere di zolfo dell’agrigentino. Di loro parla soltanto Vittorio Savorini, ne le “Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo e degli agricoltori nella provincia di Girgenti”, frutto della inchiesta disposta dal Prefetto di Girgenti nel 1881 e realizzata attraverso l’ispezione di 72 miniere della provincia.
Di queste donne non si fa cenno neanche nella letteratura siciliana che tanto ha parlato della situazione dei ‘carusi‘.
La promiscuità con i minatori, spesso nudi o seminudi, le condannava al marchio infamante di poco serie e, per la disistima in cui erano tenute, si davano spesso alla prostituzione.
Altre donne impegante in miniera erano le cernitrici sarde, che spaccavano e insaccavano pietre per tutto il giorno nelle miniere di Montevecchio.
Orgogliose di fare qualcosa per la loro comunità, liberano il terreno da mine e ordigni non esplosi che mettono a rischio la vita delle persone e l’economia del luogo.
Sfidando i tradizionali ruoli di genere, lavorano in condizioni di freddo estremo e sono in grado di sostenere le loro famiglie.
Le mine anti-uomo sono state pesantemente impiegate durante la guerra del Nagorno-Karabakh (1988-994). Di fabbricazione sovietica, hanno forma circolare e vengono attivate da qualsiasi tipo di pressione o da fili-trappola. Originariamente progettate per rendere inabili gli aduti, possono uccidere i bambini.
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