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La Diocesi di Catania tra potere religioso e potere politico

Quaranta anni dopo arriva l’edizione riveduta e accresciuta del primo libro di Adolfo Longhitano, “La parrocchia nella diocesi di Catania”, presentata mercoledì sera al Museo diocesano.
Il titolo, come ha detto uno dei relatori, Orazio Condorelli dell’Università di Catania, non rende pienamente giustizia a questa ricerca storica ricca e complessa, condotta con scrupolo scientifico, che ricostruisce la storia della città di Catania, strettamente intrecciata a quella della Chiesa e dei rapporti difficili tra Chiesa e Stato, a partire dalla conquista normanna del 1071 dC.
Ricchissima la mole di documenti – anche inediti – utilizzata dall’autore, stimolanti le questioni affrontate, molteplici le prospettive aperte da questo libro, come hanno sottolineato i relatori, Condorelli e Lorenzo Sinisi dell’Università di Catanzaro, e il moderatore dell’incontro, Gaetano Zito.
D’altra parte il termine “parrocchia”, ha precisato Zito in apertura, non sempre è stato usato, come oggi avviene, per indicare una struttura ecclesiastica territoriale di stampo tridentino.
Di parrocchie, a Catania, ce ne è stata una sola, la Cattedrale, dalla fondazione avvenuta nel 1091 fino al 1926 e uno solo ne era il ‘parroco’, vale a dire il vescovo che “considerava i sacerdoti in cura d’anime come suoi vicari cooperatori” che amministravano i sacramenti in cosiddette chiese sacramentali, senza alcuna distinzione di confini. In questo Catania, assieme alla spagnola Siviglia, costituiva quasi un unicum.
Ma il vescovo non era solo l’autorità religiosa della città, ne era anche il signore feudale e vi amministrava il potere giudiziario. Una centralizzazione decisa dallo stesso Conte Ruggero dopo la conquista e avallata da papa Urbano II che concesse ai sovrani normanni il privilegio della Legazia Apostolica, rendendo il sovrano ‘legato’ permanente del pontefice, autorizzato quindi ad intervenire anche nel governo della Chiesa locale.

Ecco perchè a Catania la storia della città è particolarmente intrecciata a quella della Chiesa, soprattutto nei primi secoli successivi alla conquista di Ruggero che volle fare dell’ordine dei Benedettini il caposaldo del suo potere in Sicilia, dopo l’islamizzazione seguita alla conquista araba.
Molti i problemi scaturiti da questa scelta: nel tempo, l’iniziale equilibrio realizzato tra le forze sociali si ruppe, i cittadini si ribellarono al vescovo per ottenere autonomia e maggiore libertà, crebbero le tensioni tra monaci benedettini e clero locale, si ingenerò una confusione tra potere religioso e civile.
Sebbene i privilegi concessi da Ruggero ai vescovi di Catania fossero stati via via intaccati, sia da Federico II sia dai sovrani spagnoli, e la città avesse acquisito caratteristiche demaniali, cioè di diretta dipendenza dal sovrano, la vecchia struttura resisteva.
Finirono, ad esempio, nel nulla i tentativi di riforma pastorale del vescovo Caracciolo che, sulla base delle indicazioni del Concilio di Trento, voleva istituire le parrocchie con confini definiti e obbligo di residenza dei parroci, oltre che organizzare la formazione dei sacerdoti.
Troppi gli interessi in gioco. L’istituzione delle parrocchie era vista come uno strumento di controllo piuttosto che come un aiuto alla vita cristiana dei fedeli, si sarebbe posto un problema di ripartizione dei benefici economici, si sarebbe alterato uno status quo che faceva comodo a molti.
La ricerca di Longhitano prosegue fino ai primi decenni del Novecento e tocca molti altri aspetti, tra cui quello urbanistico. Già alla vecchia edizione era allegata una preziosa piantina della città precedente al terremoto del 1693, che troviamo anche nella nuova edizione, pur nella riconosciuta – dallo stesso autore – difficoltà di ricostruire, da documenti sparsi, l’ubicazione di vie, piazze, edifici pubblici.
Particolarmente interessanti, oltre che di grande attualità, sono anche i riferimenti alla varietà di popolazione che viveva in città – come del resto in tutta l’isola – dopo la conquista normanna: arabi, ebrei, greci, latini, normanni, in una compresenza di culture, religioni e lingue diverse che veniva accettata e quasi protetta.
Lo testimonia la ‘platea‘, un singolare documento scritto in lingua greca e araba, custodito nel nostro Archivio diocesano, con cui Ruggero II affida alla giurisdizione del vescovo di Catania 850 famiglie di saraceni. Famiglie che avevano deciso di restare in Sicilia e che venivano riconosciute e affidate appunto alla ‘protezione’ del vescovo.

Molti quindi gli spunti di approfondimento che l’autore offre a studiosi e lettori.
Quanto a se stesso, Adolfo Longhitano ritiene di avere concluso non solo l’opera iniziata quaranta anni fa, ma il suo stesso lavoro di ricercatore. Cosa di cui ci piace dubitare visto che, permanendo in lui vivacità di interessi e vitalità, difficilmente dismetterà l’abito intellettuale di interrogarsi sulle cause degli eventi e di ricercare nei documenti le opportune risposte.

Argo

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