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Storia di Amat, sposa bambina

“Amat accetta di farsi ritrarre con la sua bambina in braccio dappertutto. Sul letto, in cortile, nella sala da pranzo, davanti a un poster coloratissimo di Winnie the pooh. Ovunque all’interno del suo perimetro di vita: 70 metri quadri senza uscita nel Centro di recupero per le spose bambine della Yemen Women Union di Sanaa”.
Inizia così una delle storie narrate dalla giornalista Laura Sivia Battaglia nella rubrica quindicinaleCronache della Mezzaluna‘ per il sito Il Reportage. Giornalista freelance e documentarista catanese, Battaglia vive attualmente tra Milano e Sanaa, in Yemen, dove si è traferita alcuni anni fa e da dove collabora con diverse testate internazionali.
Nella rubrica da cui abbiamo tratto questo racconto narra storie di uomini e donne che ha incontrato e incontra in Medio Oriente, storie individuali ma che sono specchio di un mondo e ci aiutano a capirlo meglio.
“Amat è stata letteralmente raccattata per strada da Wafaa, la direttrice del centro, che tutte le ragazze, qui, venerano come una santa. La sua storia è simile a molte altre: povertà, abbandono, prostituzione, figlia illegittima, matrimonio precoce.
Una vita di stenti finita bene, per il momento, grazie a un manipolo di donne che lavorano dagli anni Cinquanta in questo Paese per contrastare le pratiche tribali e che, a poco a poco, sono riuscite a far crescere una serie di conoscenze e valori, aiutate sia dai religiosi che dallo Stato, fino a rendere possibile il pronunciamento di sentenze e modifiche di legge.
Amat ha superato, in parte, il suo trauma. Lo si vede dagli occhi, neri e vivaci, appena scoperti dal niqab; la si vede dalla forza con cui trattiene la sua bimba di un anno e mezzo, biondissima e magrissima, per la quale stravede.
Così, è un fiume in piena e non ha problemi, nemmeno a parlare del padre, l’uomo che in assoluto odia di più, avendole dato la vita per poi destinarla alla prostituzione e infine, appena sposato con un’altra donna, averla buttata fuori di casa. “Non mi scorderò mai quella notte in cui mi disse che preferiva la nuova moglie a me e mi buttò via dalla finestra le coperte e i cuscini”.
Gli occhi di Amat sono lampi caduti nella pioggia. “Mi coprii e piansi. Avevo freddo e vergogna. Avevo una bambina piccola e illegittima in braccio. Dove mai potevo andare?”. I vicini si offrirono di ospitarla ma non la presero in casa per timore di essere denunciati. Amat aveva 14 anni e in Yemen le pene sono molto dure per chi può essere accusato di rapimento di minore.
Così Amat fermò un taxi e provò a rivolgersi al fratello: bussò a quella casa ma non ci fu posto nemmeno lì, per lei. Tentò con un hotel ma non poté entrarci: non aveva la carta d’identità. Dormì per strada e iniziò la vita per qualche giorno, fino a quando un giovane, Ahmed, le propose di sposarla.
L’offerta accadde per strada e l’uomo era gentile. Lei disse sì, soprattutto per la sua condizione di giovanissima madre. Ma non fu molto meglio. C’era un tetto, ma anche un marito da soddisfare, come fosse un cliente affezionato, e pochissimo cibo. La bambina peggiorava. “Scappai di casa di nuovo e ritornai per strada. Sono stata fortunata perché Wafaa mi ha fermato, portandomi poi qui. Se non l’avesse fatto, oggi sarei morta”.
Amat vuole lasciarsi tutto alle spalle. “Qui ho imparato tantissime cose: a leggere, scrivere, far di conto, adesso uso il computer. Mi piace molto la fotografia: sogno di fare un buon lavoro”. Mi guarda con gli occhi che le brillano, come si guarderebbe una dea. “Mi piacerebbe essere come te, fare il tuo lavoro: deve essere bellissimo”.
Rispondo al suo sguardo con un sorriso e la promessa di ritornare. E mi secca le altre parole in gola con un fiume in piena di speranza: “Non farlo per me, farlo per mia figlia. Quando è nata ho maledetto il fatto che fosse nata femmina ma guardando te non lo penso più. Vorrei che mia figlia facesse la giornalista”.
Mentre tornavo a casa, sbloccando le emozioni trattenute durante il lavoro, pensavo che, finché ci sarà anche una sola donna che non speri che sua figlia nasca femmina, non potremo mai dirci libere davvero.”
 
 

Argo

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