Si chiama Nunzio Meli, più o meno quarant’anni, di Bronte anch’egli come il pistacchio verde dop della sua piantagione. Convinto dalla moglie, Viviana Valvo, volontaria del centro Astalli, ha assunto per 20 giorni sei italiani e ben dodici giovani uomini, tutti rifugiati politici e sotto protezione. Alcuni sono del Mali, della Costa d’avorio e del Ciad; provengono, comunque, da paesi dai quali si può solo fuggire.
Si chiamano Idris e Isaac, Mamadù e Lucien, Django, Adam, Mohammed… Hanno la pelle scura e i loro occhi hanno visto guerre e orrori. I loro corpi subìto violenze e torture mai dimenticabili. Come Mamadù che ha 17 anni ed è rimasto solo dopo che in Costa d’avorio tutta la sua famiglia è stata sterminata.
Nella latitanza delle istituzioni, ha messo a disposizione di questi operai che venivano da tanto lontano non baracche e stamberghe sovraffollate, bensì un palazzetto dei primi del Novecento appartenuto alla nonna, con tanto di soffitti affrescati, quattro bagni e stanze con due o al massimo tre letti.
Sistemazione che gli è venuta a costare un bel po’ di quattrini: ha dovuto ristrutturare l’immobile chiuso da 15 anni, comprare letti e indumenti, istallare uno scaldabagno, approntare una cucina, mettere in funzione i bagni e riattivare le utenze, acqua e luce.
Nunzio Meli non ha potuto contare nemmeno su istituzioni ed enti che in una prima fase avevano offerto collaborazione e poi hanno fatto macchina indietro, come la Circumetnea che avrebbe dovuto fornire i biglietti o la Protezione civile le tende.
Ma tant’è, ai primi di settembre i dodici operai sono arrivati a Bronte dove non tutto, però, è andato subito liscio. Inizialmente l’accoglienza della popolazione non è stata delle migliori. I brontesi, forse allarmati dalla recente notizia dell’assassinio dei due coniugi catanesi, avvenuto appena una settimana prima, ad opera -pare- di un ospite del Cara di Mineo, non appena videro quei giovanotti dalla pelle nera tempestarono di chiamate il centralino della polizia urbana.
Rimasero pietrificati fino a quando Nunzio Meli si fece avanti, parlò con i vigili e chiarì il perché della presenza di quei giovani in paese. Nonostante ciò, però, i carabinieri pretesero che il produttore di pistacchi presentasse in sole 24 ore i documenti richiesti normalmente per legge entro 48 ore.
A fomentare “la rivolta”- si fa per dire- anche alcuni operai di Maniace che in passato avevano lavorato nel pistacchieto di Meli. “Sono venuti qui a levarci il lavoro”, dicevano. Poi, però, di fronte ai rassicuranti comportamenti dei giovani si calmarono e lo stesso capo squadra regalò loro vino e formaggi.
Dal canto loro i ragazzi hanno imparato presto a sgranare i pistacchi, a riporli nella “vaschetta”, a raccogliere lesti quelli caduti per terra. Anche il parroco della Madonna del riposo, padre Vincenzo Bonanno, si è adoperato per il buon inserimento dei giovani in paese.
Tutto è bene quel che finisce bene, insomma. Del resto in dialetto siciliano il pistacchio si chiama
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Buongiorno.
Come possiamo sostenere questa splendida iniziativa?
C'è la possibilità di acquistare il pistacchio solidale?
Cordiali saluti.
Massimo.
Riceviamo da Nunzio Meli, e pubblichiamo, una precisazione che egli ritiene necessaria affinchè alcune affermazioni dell'articolo non paiano ingenerose nei confronti di persone che hanno cercato di fare del loro meglio per fare sentire accolti i migranti.
"A proposito di quanto scritto nell'articolo, vorrei precisare che gli operai di Maniace, compagni di lavoro dei migranti, hanno da subito assunto nei loro confronti un atteggiamento paterno e affettuoso. Non va banalizzato il gesto di offrire loro il cibo che gli stessi maniacioti producono. Il così detto caposquadra di Maniace veniva chiamato addirittura zio, e lui ricambiava trattando gli africani come dei nipoti. Lo zio gli portava la frutta di sua produzione, che per un contadino non rappresenta solo un po’ di cibo, ma è il frutto del proprio lavoro che quando si regala assume un significato den diverso da quello alimentare. Lo zio gli portava le camicie con le maniche lunghe utili a proteggersi dal e dalla resina degli alberi.
La frase “Sono venuti a levarci il lavoro” era solo il frutto di iniziale diffidenza subito dissipata.