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Ricordiamo don Puglisi ascoltando la sua voce

La stessa data per la nascita e per la morte. E’ nato e morto il 15 settembre don Pino Puglisi, figlio di un calzolaio e di una sarta, ucciso dalla mafia tre anni dopo essere divenuto parroco di una chiesa di Brancaccio, il quartiere difficile in cui era nato. Non solo la stessa data, quindi, ma anche lo stesso luogo, per l’inizio e per la fine.
“Sono diventato il parroco del papa”, disse dopo essere stato mandato nella parrocchia di San Gaetano a Brancaccio. E il ‘papa’ era Michele Greco, il capo-mafia che proprio lì abitava.
Quest’uomo mite e sereno, con la sua fede salda nel Vangelo che lo rendeva libero da intimidazioni, lusinghe e minacce, divenne presto un soggetto pericoloso per chi pretendeva di controllare il quartiere.
Un quartiere ben diverso dall’originaria borgata rurale, divenuto “terra di nessuno”, che don Puglisi conosceva bene. “La presenza della mafia -diceva- è soltanto uno dei problemi. Certo non il minore, ma per molti la vera preoccupazione è riuscire a mangiare ogni giorno”.
Aveva presente la situazione dei bambini che “vivono in strada e dalla strada imparano solo le lezioni della delinquenza”, dei ragazzi che non andavano a scuola anche perchè “Brancaccio è l’unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media”.  E per averla anche lui si era battuto, insieme ad altri.

Conosceva la realtà drammatica della zona chiamata Stati Uniti, dove i più poveri della città “trovano rifugio in catoi che non possono chiamarsi case” e dove la povertà culturale e morale impediscono che ci sia “rispetto per la propria dignità e per quella altrui”.
Di fronte a un tessuto sociale così devastato, il piccolo prete che si faceva chiamare 3P (Padre Pino Puglisi) non si scoraggia e si mette all’opera, senza l’illusione di poter trasformare Brancaccio.
Possiamo sentirlo dalla sua viva voce, nell’audio che riporta l’intervento tenuto all’incontro “Chiesa e mafia: la cultura del servizio e dell’amore contro la cultura del malaffare”, tenutosi al Centro Padre Nostro, in collaborazione con la Fuci, il 18 febbraio del 1993, sette mesi prima di essere ammazzato.
Le nostre iniziative -dice- devono essere un segno, per fornire altri modelli, soprattutto ai giovani. Non dobbiamo illuderci di poter risolvere i problemi della borgata o cambiare il quartiere. “Questa è un’illusione che non possiamo permetterci”.
La protesta fatta insieme è un modo per ‘muovere’ tutti -continua- affinchè si sentano coinvolti, muovere le autorità perchè facciano il proprio dovere. “Si dice che dovrebbe pensarci lo Stato, ma noi possiamo dare la spinta”.
E ancora “Dato che non c’è niente, vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa… E se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto”.
Link all’audio

Argo

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  • continuiamo a ricordarlo e cerchiamo di fare qualcosa nel nostro piccolo. Non facciamoci prendere dalla sfiducia.

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