Le "Eresie" di Scidà in un piccolo libro

Integerrimo nell’analisi, severo nella ricerca della parola giusta e senza mai una di troppo, dotto e ricercato nello stile, “Eresie” è un piccolo libro che raccoglie gli articoli scritti per la rivista “Città d’utopia” da  Giambattista Scidà, già presidente del tribunale per i minorenni di Catania, libro pubblicato anche grazie al contributo di Libera.
E’ libro che va assolutamente letto sia da quanti hanno avuto la fortuna di conoscere Scidà (Titta, per gli amici), per riassaporarne le parole e riflettere sulle sue analisi sociologiche, sia da quanti potrebbero essere aiutati a capire le ragioni del disagio e della sorte alla quale è stata destinata la città di Catania.
A vederlo, piccolo di dimensioni e di appena 150 pagine, si può essere tentati dalla presunzione di poterlo leggere in poche ore. E invece no.
I suoi scritti nascevano dall’impegno di giudice che non si limitava ad emettere sentenze, ma cercava di analizzare le ragioni di tanta devianza minorile a Catania, individuandone cause e responsabili.
Soleva dire che il mestiere più difficile è quello di cittadino; e le sue erano le proteste e le denunce che ogni cittadino avrebbe dovuto fare per salvaguardare le risorse pubbliche che appartengono a tutti. Eppure egli era diverso da tanti cittadini: da quei cittadini che di fronte ad una diffusa illegalità cedono al cinismo e al fatalismo. Mai un cedimento, mai un indietreggiare anche di fronte ai poteri forti, mai un compromesso.
Si diceva che Scidà fosse un uomo di altri tempi, col suo discorrere forbito. Eppure egli riusciva a parlare e ad entrare in relazione con ogni minore dei quartieri diseredati di Catania presente durante un processo penale o quando si recava in carcere o nelle scuole di periferia.
Ad ognuno domandava dove vivesse, quali scuole avesse frequentato, l’eventuale occupazione, la composizione familiare e tanto altro ancora per capire lo stretto rapporto che vi fosse tra la esclusione dei benefici della cittadinanza sociale, la forte spinta a delinquere e il dilagare del delitto impunito: relegati in quartieri di abbandono, privi di scolarizzazione materna, senza luoghi di aggregazione e senza una presenza dello Stato (caserme di carabinieri o polizia municipale); consapevoli del dilagare della devianza amministrativa che destinava sempre più risorse pubbliche ai patrimoni privati, attraverso appalti, contributi, forniture, locazioni e destinazioni d’uso, nell’assenza di azioni contrarie sia da parte delle opposizioni politiche che degli apparati di incriminazione e di repressione.
E quando parla di amministratori corrotti che hanno determinato lo scempio della città e del territorio, della borghesia cittadina che ha accumulato ricchezze a scapito dei cittadini esclusi dalla fruizione di servizi essenziali, della magistratura inquirente latitante nell’attività istruttoria del malaffare cittadino, del monopolio dell’informazione e della negazione di essa, del sodalizio con la criminalità organizzata per il controllo dei voti e la ricerca del consenso e dell’Opposizione trasformata in Consenso, non si limita ad argomentazioni generali, ma fa i nomi – che potrete leggere in “Eresie” – ed è per questo che viene isolato, perseguitato, ma mai sconfitto.
Il libro è stato anticipato nel novembre 2013, nel corso della manifestazione per ricordare Scidà a due anni dalla morte, ed è stato presentato ai Benedettini in concomitanza con l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014.
In quell’occasione è stato annunciato che l’Associazione Siciliani per la Legalità, il cui statuto è stato scritto da Scidà, aggiungerà alla propria denominazione il nome di Giambattista Scidà e fra i suoi compiti avrà la raccolta e la divulgazione degli scritti e del pensiero del grande magistrato catanese: “Ignorare il passato vuol dire essere male attrezzati per la lettura del presente, e per combattere, nel presente, quel che del passato sopravvive e ci minaccia”.

Argo

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  • Bravo Sergio.Ricordare Scida' è combattere il silenzio calato su Catania "cattiva madre". Non sarà facile, ma ci dobbiamo provare. Non lo dobbiamo a Titta soltanto, ma a noi stessi e ai ragazzi catanesi.

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