“C’era una volta un Piccolo Paese…” esordisce con la voce un po’ rauca, parlando sottovoce. “Un Paese surreale, metaforico, che non esiste.” Impossibile contenere una risata amara di fronte alla perfetta rappresentazione della nostra Italia: ridotta a uno straccio, divorata da un male irreversibile, un male che l’attore individua nella corruzione e nel sesso maschile al potere.
Ascanio Celestini, attore, drammaturgo, cantastorie non veniva in Sicilia da anni, ma non per sua scelta. Lui è come un idraulico, dice, va dove lo chiamano.
In concomitanza con l’inizio del mandato quadriennale dei suoi dirigenti, l’Arci ha inaugurato il nuovo anno con l’obiettivo di dare più spazio alla politica culturale, e lo ha fatto invitando Celestini in un tour che ha toccato mercoledì 15 Catania, prima tra le cinque città della Sicilia in cui l’attore riproporrà i suoi racconti tra favola e realtà.
Lo spettacolo è stato organizzato in collaborazione con la Lomax, che presto darà il via a una rassegna teatrale.
Celestini è uno di quegli attori che non fa finta di essere un personaggio bensì lo racconta, che non manda giù il testo a memoria e si affida ancora all’improvvisazione.
Il suo repertorio di storie, che lui chiama “racconti cerino”, sono delle storie brevi che risalgono alla sua collaborazione con “Parla con me”. Li chiama così per via del limite dei “cinqueminuti-meglioquattro” impostogli dalla televisione, e anche perché sono una fiamma effimera, che si spegne dopo pochi secondi lasciando, tutt’al più, un fastidioso odore di bruciato.
Questi racconti Celestini li aveva raccolti in un libro (“Io cammino in fila indiana”, edito da Einaudi nel 2011), ma allungare la vita alle storie fissandole su carta significa anche porvi un limite. Per questo il cantastorie preferisce raccontarle a voce, perché, vero è che scripta volant, verba manent, ma solo nella sua tramandazione orale una storia può mantenersi sempre attuale, può essere arricchita e può essere raccontata in maniera diversa senza tuttavia perdere la sua essenza.
Come le fiabe, che per raccontarle non serve sapere la storia parola per parola ma basta conoscere i punti salienti della trama; e -come ai bambini- a noi basta l’immaginazione per vedere la scena, senza l’aiuto di una scenografia o, come diceva Michael Ende, di bambole multifunzione.
Basta solo qualche effetto scenico: un lieve accompagnamento musicale e una luce che avvolge l’attore dall’alto, che va in dissolvenza separando con delle pause di buio i racconti. Entrambi questi effetti sono stati curati da Andrea Pesce, il tecnico che accompagna Celestini da anni nelle sue tournée.
Delle fiabe Celestini fa sua anche la finalità pedagogica, i suoi racconti mettono in moto dei meccanismi: ci fanno riflettere sull’importanza della filosofia e del pensiero libero, e ci aprono gli occhi sull’alienazione della vita nella società capitalistica.
Un linguaggio che somiglia a quello usato da Angel Boligan Corbo, un illustratore cubano che con il suo umorismo pessimistico rivela l’altra faccia della tecnologia e del consumismo rovesciando delle scene ordinarie, che rappresentano la nostra quotidianità, in maniera tale che se ne resta addirittura inquietati.
I Racconti del Piccolo Paese che l’attore ha scelto per questa serata seguono un andamento circolare, e nella conclusione egli ritorna al punto di partenza: “La goccia”.
Un uomo è seduto sulla poltrona di casa, guarda il rubinetto che gocciola e pensa che, goccia dopo goccia, il lavandino si riempirà e il pavimento si allagherà, e poi si allagheranno i piani sottostanti, finché l’edificio, un piano dopo l’altro, crollerà.
L’uomo vorrebbe alzarsi e chiudere il rubinetto, ma non lo fa. Da un lato pensa che fare qualcosa non tocchi a lui, ma a coloro che sono stati eletti per farlo; dall’altro si convince di stare sopravvalutando la situazione, che non ci sarà nessun allagamento, e pertanto va a dormire sereno. Nell’epilogo della storia l’uomo affoga.
Il messaggio è chiaro, sappiamo che anche il nostro rubinetto ha cominciato a gocciolare. Se ci siamo alzati per andare a chiuderlo, se abbiamo aspettato che lo facesse qualcun altro, o se abbiamo pensato che non fosse un problema reale… ciascuno di noi ha risposto nella propria mente a questa domanda che nasce spontanea nella nostra coscienza.
Però una cosa a nostra discolpa possiamo dirla: noi, almeno, un idraulico lo abbiamo chiamato.
Si dice che la conoscenza sia come un lume, una fiamma che arde su una candela ed è capace di accenderne un’altra quando la si condivide con altri. Eppure, cosa ce ne faremmo di tante candele senza un cerino?
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