Che i migranti siano sfruttati e sottopagati è noto a tutti, quanto e con quale violenza sfugge ai più.
Una recente inchiesta (luglio 2013), condotta – nel ragusano – da Davide Carnemolla, Claudia Di Franco, Ester Moschini e Alessandra Sciurba, descrive una situazione intollerabile per un Paese che si definisce ‘civile’.
Non parliamo solo di lavoro non pagato e promesse non mantenute, ma anche di violenze, fisiche e psichiche, subite, soprattutto, dalle donne.
In Sicilia su circa 103.000 occupati nel settore agro-alimentare, oltre 25.000 sono di origine straniera, in maggioranza rumeni (quindi ‘comunitari’) e tunisini, 11.000 i primi, 8.000 i secondi, da più tempo nella Regione. Nel ragusano, nelle serre, si lavora tutto l’anno, per questo la presenza dei migranti è particolarmente significativa.
Come scrivono gli autori, “si tratta di un lavoro massacrante, a temperature spesso altissime, e molto pericoloso per la salute a causa dei fitofarmaci e dei diserbanti che hanno conseguenze sull’apparato respiratorio, sulla pelle, sugli occhi […] se il lavoro non è nero (e lo è nel 60% dei casi), è grigio, ovvero si dichiara solo una parte dei giorni lavorati, da 51 a 182 (mentre in realtà sono in media 260) in modo che il lavoratore possa integrare il salario dato dal proprietario terriero con il sussidio di disoccupazione pagato dall’Inps.
Il contratto, quando esiste, rimane così di tipo stagionale, mentre la paga giornaliera è di norma inferiore a quella dichiarata e comunque molto più bassa degli almeno 50 euro che dovrebbero essere garantiti da contratto sindacale”.
A rendere ancora più drammatica questa situazione si aggiunge l’inevitabile ‘guerra fra poveri’, che comincia nel 2007 con l’arrivo degli emigrati rumeni, diventati cittadini comunitari.
Sottolineano gli autori dell’inchiesta: “Da quando i cittadini rumeni sono diventati cittadini europei, i datori di lavoro, impiegando loro al posto dei tunisini, non rischiano più di incorrere nel reato di favoreggiamento o sfruttamento della migrazione clandestina.
L’avere acquisito la cittadinanza Ue, paradossalmente, ha reso queste persone più facilmente sfruttabili all’interno di un sistema produttivo che li vede di norma come ultimo anello di una catena in cui italiani e tunisini vengono prima di loro”.
Ma anche all’interno ‘dell’ultimo anello’ c’è chi subisce di più: le donne rumene. Nelle serre sfruttamento e ricatti sessuali sembrano costituire un binomio inscindibile.
“Questo fenomeno, che accomuna lo sfruttamento lavorativo a quello sessuale, è molto diffuso soprattutto nelle campagne. Qui i datori di lavoro esercitano una vera e propria costrizione psicologica sulle loro lavoratrici, promettendo maggiori compensi a chi accondiscende alla loro richiesta di prestazioni sessuali. Non si tratta di vera e propria costrizione fisica, si potrebbe dire, ma quando il potere negoziale è nullo e l’alternativa più verosimile è la perdita del lavoro, allora il limite tra scelta e costrizione è davvero labile”.
Si parla, nella zona, di ‘festini agricoli’, veri e propri festini a sfondo sessuale, una sorta di bunga bunga siciliano, dal quale per le ragazze coinvolte è molto difficile tirarsi fuori, come dimostrano i dati delle richieste di interruzione volontaria della gravidanza che a Vittoria, in proporzione, sono più alti rispetto a ogni altro comune italiano.
Mentre la maggioranza della popolazione fa finta di non sapere e non ‘apprezza’ chi denuncia questo stato di cose, le organizzazioni di volontariato tentano di rompere questa perversa spirale di sfruttamento e violenza.
In particolare, “per cercare di fare emergere questa realtà e di proteggere in qualche modo le donne sfruttate, la cooperativa Proxima, in partenariato con la Flai-Cgil e la Camera del Lavoro di Vittoria, ha avviato da meno di un anno un progetto estremamente intelligente che potrebbe portare importanti risultati.
Si tratta del Solidal Transfert, un pullmino che attraversa le campagne del ragusano, fornendo ai migranti un passaggio per andare a fare la spesa, ricaricare i telefoni, e in generale spostarsi senza bisogno di pagare i caporali all’interno di un territorio in cui vivono segregati nella loro zona di lavoro”.
Un’iniziativa che, al di là del sevizio fornito, permette di costruire rapporti, relazioni, fiducia. Una premessa fondamentale per rompere la gabbia dell’isolamento e dello sfruttamento.
Leggi il testo integrale dell’articolo pubblicato in Meltingpot
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