Un patrocinio del tutto meritato, per la profondità, l’originalità e la forza dei contenuti proposti. Grazie alla regia di Joele Anastasi i tre protagonisti, lo stesso regista, Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano, in una scena ‘ridotta all’osso’ (unica presenza estranea: un baule), riescono a dialogare e a ricostruire un complesso percorso di vita, caratterizzato da esperienze sempre ‘al limite’, senza parlare mai direttamente fra loro.
E’, infatti, una successione di monologhi che permette allo spettatore di seguire e partecipare alla storia/alle storie. Monologhi che esaltano, sottolineando l’indissolubile legame fra corpo, parole e pensieri, la forza espressiva degli attori, la capacità individuale di esprimere, semplicemente rappresentando se stessi, la violenza del contesto, la violenza subita, la voglia e la paura del cambiamento.
Un clima familiare tragico, come solo nei Sud del mondo può esserlo, la fuga da quella realtà, frutto non di una scelta razionale, meditata, ma vissuta come estremo, e drammatico, tentativo di salvezza. E, infine, la malattia, l’AIDS, che colpisce Giovanni e lo sottopone a una doppia prova.
Quella con la cugina Rosaria, con la quale ha condiviso il processo di crescita, tanto da poter vivere insieme con lei con ‘leggerezza’ il proprio orientamento sessuale, pur in un ambiente, violento fisicamente e moralmente, nel quale Giovanni viene chiamato: puppo, frocio, checca.
Quello con Giuseppe, anch’egli letteralmente fuggito dalla propria famiglia (unica soluzione per sopravvivere alle violenze quotidiane), che ha un lavoro, è sposato, si sente “normale”, sottolinea di essere “uomo”, ma non riesce a fare a meno di sentirsi attratto sessualmente da Giovanni.
Giuseppe che lo contagia (‘Io, mai niente con nessuno avevo fatto’, dirà Giovanni), ma in un ribaltamento di ruoli e posizioni, che solo una situazione così tragica può determinare, non saprà fare altro che urlare contro quel “frocio di merda” e, senza sentire nessuna contraddizione, mettersi a pregare.
Fra i tre è Giovanni, ingenuo e puro, l’unico capace di sopportare tutto questo peso, di non lasciare morire la speranza. Perché, come si legge nelle riflessioni proposte da Vucciria Teatro: “Malattia, omosessualità, morte, violenza non sono più il punto di arrivo per giustificare qualcosa che esiste ed ha bisogno di essere accettata, ma bensì il punto di partenza per iniziare a raccontare il ‘come’ e non il ‘perché’ […] per non generare un’accettazione indifferente, per parlare all’anima di tutti e non alle categorie di esseri umani, per destrutturarle qualora queste esistano davvero”.
Il lunghissimo, e assolutamente convinto, applauso finale degli spettatori è la prova che lo spettacolo ha
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