“Ho letto un centinaio di pagine, non ho nemmeno finito il libro e improvvisamente… ho preso una cotta”. L’innamorato in questione è Salvatore Sgroi, ordinario di linguistica, uno degli intervenuti nell’aula magna del Dipartimento di Scienze politiche alla presentazione del libro della sociologa Graziella Priulla, “Riprendiamoci le parole”. Organizzatori dell’evento l’associazione Haruka in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Catania, e l’associazione studentesca Nike. Erano presenti anche il direttore del Dappsi, Giuseppe Vecchio, Giuseppe Barone, ordinario di Storia contemporanea, Caterina Campochiaro, presidente di Haruka, il giornalista Giuseppe Lazzaro Danzuso, lo studente Marco Cuttone, presidente Nike.
Prova nostalgia, Graziella Priulla, per le parole della politica che non esistono più e per una “sinistra antica” così lontana dall’attuale “sinistra – si fa per dire”. Parla di questo libro, nato in pochi mesi, di getto, nel dicembre del 2011, in un momento di grande imbarazzo per l’immagine che l’Italia di Berlusconi dava di sé nel mondo.
Chiude il libro, Priulla, chiamando tutti ad un assunzione di responsabilità e quasi invocando Gramsci: “Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare“. Una sollecitazione raccolta dal giornalista Giuseppe Lazzaro Danzuso con un mea culpa, “Dopo la lettura di questo libro mi sono sentito affranto proprio perché nessuno di noi può dirsi innocente. Sono davvero pochissimi quegli italiani che non hanno alcuna responsabilità nella disastrosa regressione culturale e dei costumi che ha colpito il nostro popolo. E che si è concretizzata principalmente nel tradimento della lingua italiana“.
“Violare le parole è un delitto”, ha detto ancora il giornalista. “Per la società – sostiene, infatti, il libro – la lingua funziona come deposito collettivo delle idee, dei valori, dei giudizi che formuliamo su ciò che è buono e cattivo, giusto e ingiusto, lecito e illecito; costruisce i comportamenti a partire dal nostro ingresso nel mondo. In questo senso è un bene pubblico, condizione di sopravvivenza di una comunità, né più né meno come l’acqua”.
E tornano i sensi di colpa della stampa. “Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, che non si falsifichino le fonti, che non si inventino i dati. – ha concluso Danzuso – E in questo un ruolo fondamentale può averlo la mia categoria, quella dei giornalisti. Che però da sola non può farcela. Bisogna rifarsi all’articolo 2 della legge istitutiva dell’Ordine, quando si afferma che Giornalisti e editori sono tenuti … a promuovere … la fiducia tra la stampa e i lettori. Dobbiamo farlo per i giovani, per spiegar loro i rischi della manipolazione”.
Sì i giovani. “Come possono – ci si chiede in Riprendiamoci le parole – farlo da soli, se da quando sono nati hanno assistito al tradimento delle parole? Lo storpiamento ne rovescia il senso: in uno specchio capovolto la moralità degenera in moralismo, la laicità in laicismo, la giustizia in giustizialismo, la libertà si schiaccia sul liberismo. Si sono sdoganati il mestiere di faccendiere chiamandolo lobby, quello di puttana chiamandola escort, il mercimonio dei parlamentari chiamandolo responsabilità, la xenofobia chiamandola folklore… ecco che significa scherzare con il lessico. I mafiosi possono diventare eroi, i latitanti esuli, i magistrati brigatisti”. Cominciamo da qui per invertire la rotta. Curando le parole malate per far sì che guariscano.
Leggi su Argo la recensione del libro di Graziella Priulla
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