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Quella volta con i somali nel Palazzo delle Poste

Le percezioni restano cromaticamente cupe. Anche adesso che al Palazzo delle Poste il buio ha ceduto la scena alla luce bianca e intensa di due fari. La sensazione è quella che un altro mattone è stato posto a rinvigorire il muro che separa un Noi virtuoso e limpido da un Loro subalterno e impuro, la Nostra Catania bella e onesta dalla Loro Catania satura di degrado e disperazione.
Pochi giorni prima dello sgombero ritenni opportuno avvisare i diretti interessati di quello che stava per accadere.
Il ringhio spaventato di due cani che, abbattuta la barriera specista, passavano le loro giornate senza padrone oscillando tra sole ed ombra fu il più eloquente dei “benvenuto”, quel pomeriggio uggioso al Palazzo delle Poste.
I ragazzi somali stavano studiando l’italiano in una cameretta all’ultimo piano dell’edificio di fronte al grande cancello all’ingresso. Erano in cinque. Mi accolsero gentilmente.
Fissavo attentamente le maniche della camicia che Sharif stirava con meticolosità invidiabile, inginocchiato sulla moquette in feltro, quando ricordai il motivo per cui mi trovavo lì in quel momento.
Qualche giorno ancora e anche quella piccola Somalia sarebbe stata sgomberata. Lo stupore sui loro volti lasciò immediatamente posto alla rabbia. Lo sfogo era spontaneo ed accorato. Quel continuo scappare dalla precarietà rendeva le loro esistenze simili ad un lancinante tormento.

Attraversai il cortile sotto lo sguardo ansioso dei due cani prima di raggiungere lo stanzone dei giovani “francofoni”. Diedi loro la notizia dello sgombero. Non riuscii a rispondere ai “Perché?” densi di sconforto e incredulità.
Questione di muro. Di Noi. Di Loro. E come se non bastasse:
Catania, 25 mag. – (Adnkronos)- ”La decisione di sgomberare quell’hotel del degrado che era ormai divenuto l’ex Palazzo delle Poste, dove centinaia di extracomunitari e barboni vivevano tra i rifiuti, e’ un atto positivo che si colloca nel solco del virtuoso percorso di recupero dal degrado e di bonifica dell’illegalità”.
Loro, che tra uno sputo di sangue e l’altro imparano tre/quattro lingue. Che se non naufragano in mare facciamoli naufragare Noi sulla terra. Loro, che attraversano il Sahara e il Mediterraneo per poi morire a vent’anni, annegati in un vascone di Ordona. Loro, che piangono pensando ai piedini sporchi dei loro bambini. Loro, che agli stessi bambini un giorno racconteranno di quanto sia umiliante vivere in equilibrio tra la vita e la morte per sentirsi chiamare, da Noi, “Extracomunitari e barboni”.
Giovanni Sciolto

 

Argo

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