In una parte della struttura, ci dicono, erano presenti circa 180 Rom e 30 rifugiati somali ed eritrei che convivevano tranquillamente. Pur in assenza di acqua corrente, che i Rom, comunque, portavano trasportandola su carrozzine, i locali erano stati divisi così da creare ambienti separati, utilizzati dai vari nuclei familiari. Il lavoro di un falegname Rom aveva reso “più confortevoli” gli ambienti utilizzati dagli africani. Nei locali familiari un po’ di mobili, cucine, frigoriferi, pompe di calore, anche qualche televisore. Insomma, nonostante tutto, una situazione complessivamente gestibile.
Nelle altre parti della struttura, in un quadro molto più complesso sia dal punto di vista igienico che delle relazioni, si trovavano, invece, circa duecento magrebini. Parlare di condizioni di vita disperate, in questo caso, non è per nulla retorico.
La mattina dello sgombero nessuno ha opposto resistenza, anche perché, in particolare ai Rom, era stato promesso, dal Comune, che avrebbero potuto trasportare nel nuovo insediamento cui erano destinati le loro ‘masserizie’. E questa è la prima promessa non mantenuta. Ancora oggi, infatti, una parte di questo materiale non è stata restituita poiché è tuttora sequestrato, un’altra parte, distrutta davanti al palazzo delle Poste, ovviamente non lo sarà mai.
Ma, per i Rom, come sottolineano i nostri interlocutori, il problema più grave riguarda il campo (roulottes e tende a San Giuseppe La Rena) dove sono stati trasferiti. Si tratta, infatti, di una struttura lontana dal centro cittadino che renderà molto più complicata la loro esistenza. Per fare un solo esempio, quanti autisti dell’AMT accetteranno di far salire sugli autobus un gran numero di Rom diretti verso il centro città e quanti proseguiranno la loro corsa “saltando” la fermata? Inoltre, averli invitati a non farsi vedere in giro, in particolare all’aeroporto, non sembra il modo migliore per affrontare il problema della loro emarginazione. E ancora, perché viene impedito il libero accesso al campo ai volontari di alcune associazioni umanitarie, che hanno sviluppato, senza concordarlo col Comune, un concreto lavoro di solidarietà? Quali regole caratterizzano la struttura? Cosa vuole fare il Comune per favorire i progetti di integrazione? E’ garantita l’agibilità democratica all’interno o bisogna aspettare le autorizzazioni (assessore Pennisi) del Comune?
Per quanto riguarda somali ed eritrei, una metà è stata accolta nel centro di Accoglienza e Solidarietà di via Finocchiaro Aprile, gli altri sono “dispersi” in città. Inoltre, due somali, dopo aver chiesto alle forze dell’ordine presenti di rientrare nel Palazzo sgomberato per recuperare parte dei loro averi, sono stati incredibilmente denunciati.
Dei circa duecento magrebini, ovviamente, non si sa nulla, se non che hanno ulteriormente ingrossato il numero degli “irregolari” presenti a Catania, senza diritti, né tutele.
Ce n’è abbastanza per chiedere una radicale inversione di rotta. A Comune e Prefettura spetta l’obbligo di costruire percorsi di inclusione, tali da garantire il diritto alla casa, all’istruzione, alla salute e al lavoro.
Continuare ad affrontare questi problemi attraverso la lente distorta delle necessità “dell’ordine pubblico”, non solo non permette di risolverli, ma li rende, proprio perché cerca di nasconderli, sempre più complicati.
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