Quando Librino dà spettacolo

La vana ricerca di uno spazio per giocare a calcio come metafora del desiderio di una vita ‘normale’ che un gruppo di adolescenti del quartiere di Librino insegue inutilmente.
Lo sfondo, e il titolo, è “Librino”, un quartiere-mostro di 70.000 abitanti, non l’ultimo ma certamente il più grosso dei sogni fallimentari della ‘grande Catania’ degli anni Sessanta.
Il monologo, scritto e messo in scena dal camaleontico Luciano Bruno al GAPA di via Cordai per la regia di O. Condorelli e G. Scatà, non è solo un piccolo ma riuscito saggio di ‘romanzo di formazione’, in parte autobiografico, in cui si racconta di un gruppo di adolescenti, muniti dei regolamentari soprannomi -Pirocchiu, Grattacielo, Menzabirra, Tigna, Lucio Dalla, Funcia e Luciano-, che inseguono infruttuosamente il sogno di uno spazio in cui prendere a calci un pallone, fino a quando, ormai adulti, la durezza della vita non li condurrà su strade diverse. L’ennesima storia insomma di un’adolescenza a cui è stata rubata, oltre la freschezza, anche la voglia di imparare a perseguire i propri sogni.
Un desiderio normalissimo, ma paradossalmente difficile da realizzare in un quartiere in cui di spazi liberi ce ne sono anche troppi; infatti i ragazzi vengono continuamente scacciati, dal pezzo di campagna in cui deve sorgere l’ennesima palazzata, dal cortile sotto casa, dalla piazza più vicina, perché c’è sempre un adulto –il palazzinaro speculatore, il vicino di casa che deve alzarsi presto per andare a lavorare, il capo del condominio- che impone altre esigenze.
Lo spettacolo è però anche un tassello che si aggiunge al mosaico della storia e dell’identità di un quartiere che tante e diversificate presenze di gruppi, associazioni e iniziative stanno cercando di costruire con determinazione quasi disperata, vista l’enormità del problema, la violenza dei venti che spirano contro e l’esiguità delle forze in campo. L’importante è che ci siano e che continuino a provarci.
Ma è soprattutto un atto di accusa contro una intera classe politica locale che non ha saputo dare seguito all’intuizione iniziale di trasformare una borgata dalla florida agricoltura -chi non ha mai sentito parlare del mitico vino delle Terreforti?- in una città-satellite pienamente autonoma ma organicamente comunicante col resto della città.
Col passare del tempo è stata deformata, tanto per cambiare, in una colossale concentrazione di speculazione edilizia e clientelismo elettorale, priva delle più elementari strutture utili ad una umana e civile convivenza ma con tanti spazi vuoti in cui si è comodamente infiltrata, occupandoli in pianta stabile, la malavita.
Il grande successo di pubblico e la sincera commozione che Luciano Bruno ha saputo comunicare sono una piccola ma sostanziosa testimonianza di quanto la gente abbia bisogno di sentirsi raccontare, non in maniera consolatoria, la realtà vera e non quella manipolata e corruttrice fatta di nonni Liberi, veline, escort e trans.
Una modesta proposta: perché non far girare obbligatoriamente per le scuole questo spettacolo, una vera e propria lezione di storia locale e di ‘cittadinanza’, come vorrebbe l’impareggiabile ministro Gelmini?

Argo

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